Laura Nicolini
UNA PALLOTTOLA STUDIATA

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Quando la pubblicità necessita dell’arte

Quando la pubblicità necessita dell’arte

Corsi e ricorsi, mode e tendenze, cicli e ricicli. Succede anche in pubblicità: si ripescano linguaggi, stereotipi, riferimenti, persino colori e font, formati e gabbie. Si passa dal “tutto testo” alla “sola immagine” e gli unici attori che nel tempo si sono attenuti a regole piuttosto fisse sono i marchi dell’alta moda… ma di questo parleremo un’altra volta. Oggi mi divertirò invece a scrivere un po’ di cronaca partendo dagli annunci pubblicitari visti ultimamente su quotidiani e testate di settore. Mi sono accorta che, ormai, certe scelte creative non riescono a prescindere dall’arte (o dalle manifestazioni artistiche, se vogliamo essere più morbidi). Partiamo, in ordine assolutamente casuale, da Sisley abbigliamento, che non è la Sisley Paris dei cosmetici di lusso, ma un marchio francese del 1968 che oggi fa parte del gruppo Benetton. L’ultima campagna stampa vede un gruppo di persone immobili che fanno immediatamente pensare alle opere di Vanessa Beecroft*, che infatti firma la creatività del soggetto Primavera-Estate 2017, dichiarando: “Ho deciso di lavorare con certi progetti di moda perché credo di poter trascendere la moda stessa e creare un’immagine che si riferisca alla geometria, alla pittura, ai colori”. Lo stile è molto riconoscibile – non è necessario essere esperti in arte contemporanea – e il concetto resta assolutamente condivisibile perché, quando si tratta di geometria e colori, tutto può diventare arte e mi si perdoni la banalità dell’affermazione. Volendo dare un parere del tutto personale, aggiungerei solamente che permane comunque un “effetto catalogo” dovuto alla varietà degli outfit, quindi mi immagino la riunione della presentazione della campagna con il committente che dice “Mi piace molto l’idea, ma riusciamo a far vedere tutta la collezione?”. Dai, sicuramente mi sbaglio, ma mi piace pensare che anche le grandi agenzie abbiano un po’ gli stessi nostri problemi.

Fonti:

*http://www.grazia.it/moda/news-moda/sisley-campagna-primavera-estate-2017-vanessa-beecroft

 “Da più di vent’anni il lavoro di Vanessa, nata in Italia ed emigrata a Los Angeles, spazia dalla performance alla pittura, dalla fotografia alla scultura. Le sue opere hanno ricevuto riconoscimento internazionale e sono state esposte dalle istituzioni più importanti del circuito dell’arte, come il Guggenheim Museum di New York, la National Gallery di Londra e la Biennale di Venezia.”

Per fortuna in questo momento c’è lo spot del Buondì Motta che segna un punto a favore della creatività, incurante degli effetti collaterali di pubblico e critica.

 

 

 

 

 

Calvin Klein (dove Calvin non è il mitico bimbo della striscia “Calvin & Hobbes” creata da Bill Watterson, ma una firma conosciuta a livello interplanetario), amplia la gamma di riferimenti artistici e fotografa i modelli direttamente presso i musei e le fondazioni culturali che espongono le opere. Abbiamo ad esempio Andy Wharol con “Elvis 11 Times (Studio Type), 1963 © presso la Andy Wharol Foundation / ARS: una location che diventa scenografia per due modelli visti di spalle e come testo della pagina pubblicitaria una descrizione dei capi fotografati che riprende lo stile delle didascalie museali. Si chiude citando il fotografo e, di nuovo, la location originale. Il messaggio pare essere: “icona che osserva icona” e ha un che di statico oppure, forse meglio, di contemplativo. Optiamo per quest’ultima lettura, perché in questo modo acquisisce una certa logica anche l’immagine del modello in mutande – pardon, Underwear – che, rapito dalla visione, scorda di vestirsi e abbraccia colei con la quale condivide il momento. Decisamente più coinvolgente l’altro soggetto: una ragazza (più ragazza che modella, forse questo il brief al responsabile del casting) che riempie la pagina con un sorriso contagioso, lasciando sullo sfondo un’opera di Richard Prince: I Changed My Name, 1988 ©

Per chi non conoscesse questo artista, due righe di critica e suo sito ufficiale: http://www.richardprince.com/

“Dal 1977 in poi, Prince si è affermato come uno dei più importanti pionieri dell’appropriazione in arte contemporanea, aprendo la strada ad un genere, che è stato chiamato ‘rephotography’. In un estratto dal suo Writing, pubblicato lo stesso anno, Prince propone la Rephotography come una tecnica per sottrarre immagini già esistenti, emulazione piuttosto che copia, rimaneggiamento piuttosto che citazione.” In altre parole, l’artista nato a Panama nel 1947, si appropria d’immagini altrui, ad esempio utilizzando Instagram, le rielabora e le rivende, anche a prezzi molto alti.

A chi lo accusa di pirateria, risponde una sentenza che lo assolve definitivamente dall’accusa.

Fonte:

http://www.artuner.com/it/artists/richard-prince/

 

 

 

 

 

 

Passiamo ora a un altro marchio molto sensibile alla cultura del bello… basti pensare ai budget destinati agli show di presentazione delle collezioni, alle vetrine dei negozi monomarca, ai video e alle sponsorizzazioni; si tratta di Moncler, un’azienda nata nel 1952 grazie al francese René Ramillon, artigiano di attrezzature da montagna, che operava a MONestier de CLERmont.

https://www.youtube.com/watch?v=eblYBbhYLNg

https://www.youtube.com/watch?v=qSt8WwibnH4

 

 

Nella campagna autunno-inverno 2017, Moncler ha lasciato carta bianca (immagino) al performer Liu Bolin, noto per la sua capacità di mimetizzarsi fisicamente in qualsiasi ambiente, con un effetto sorpresa che si rinnova al rinnovarsi del contesto: una volta libreria, una volta supermercato, un’altra ancora paesaggio naturale. L’artista cinese, grazie al body painting, si fonde con qualsiasi scenografia e l’immagine fotografica finale è una via di mezzo fra “trompe-l’oeil” e “mago del fotoritocco” anche se, ne siamo quasi certi, qui Fotoshop non c’entra nulla. Tornando all’immagine di Moncler soggetto-libreria, uniche concessioni al dio del commercio sono l’artista vestito – sembrerebbe – con prodotti Moncler e il dettaglio in alto a destra, dove il cartello che indica la sezione dei libri dedicati al Mountain Climbing targettizza in qualche modo il potenziale cliente. Non serve aggiungere altro, se non un piccolo logo e il super sintetico moncler.com. Piccolo particolare: l’autrice della foto è niente meno che Annie Leibovitz, come dire: la guru dei guru dei ritratti fotografici, e non solo.

Backstage
https://www.moncler.com/gb/news/liu-bolin-performance-photographed-by-annie-leibovitz/

PS: vedo la data di nascita: 7 gennaio 1973. Bolin è del capricorno, come mio marito. Non conosco l’artista in questione, ma conosco bene mio marito e posso affermare con certezza che solo un capricorno potrebbe cimentarsi, con successo, in un’opera che richiede tanta precisione.

Per chiudere ecco l’annuncio stampa di Santoni, marchio italiano per calzature di lusso. Mi sentirei di dire che qui, di creatività, c’è proprio il minimo sindacale. Certo, si è scomodato Maurizio Cattelan (17.2 milioni di dollari in asta a New York per il suo “Him”, il manichino con Hitler inginocchiato, per dire), che compare nella head line con un banalissimo “Maurizio Cattelan in Santoni” e poi anche di persona, con sguardo furbetto e ammiccante, appena di lato ai prodotti indossati e replicati per posa e colore. Mah, mi piacerebbe sapere quanto Cattelan è intervenuto sul concept della foto, sulla composizione, sui colori, sul taglio, sul testo… oppure è stato solo un atto di presenza? No, non alimentiamo la demagogia e non chiediamoci se e quanto sarà stato pagato il testimonial.

Qui qualche spiegazione in più: “Toilet Paper, progetto creativo-editoriale firmato dalla coppia Cattelan-Ferrari, stringe una liaison con una nota azienda di calzature. Ne viene fuori una campagna pubblicitaria, con l’artista nel ruolo di testimonial, e un paio di sneaker in edizione limitata”. http://www.artribune.com/progettazione/moda/2017/05/moda-maurizio-cattelan-toilet-paper-campagna-pubblicita-santoni/

E allora perché non dirlo subito?

 

 

 

 

 

 

La mia morale è dunque questa: da sempre, l’arte ha influenzato la pubblicità e viceversa. Ed è bene che si continui così perché tutte le contaminazioni, purché portino a qualcosa di solido in fatto di creatività e idee, hanno un senso, che sta soprattutto in chi guarda. Perché quando l’idea è buona non serve che abbia un significato unico: si accettano tutte le interpretazioni, tutte le reazioni. Quando invece l’arte è un piccolo pretesto, un’ideuzza, una citazione leggermente (o pesantemente) fuori contesto, allora infastidisce, perché non aggiunge nulla a quanto già detto, fatto, interpretato. Diventa un piccolo ingranaggio nella macchina complessa della réclame, che come tale tutto macina e rimescola, senza lasciare il segno. Anche il nostro lavoro fa parte del meccanismo, sia chiaro. Noi siamo qui per far vendere di più, il nostro compito è far comperare di più. Però ci muoviamo con cautela, con rispetto verso il pubblico, senza mai sottovalutarlo anzi. Cerchiamo idee originali e, se non vengono, passiamo al piano B: facciamo informazione diretta, chiara, senza stereotipi e – come accaduto nel già citato spot Buondì – con una forte dose di ironia, quando serve ma, soprattutto, quando ci sta.

 

Ýrúrarí Jóhannsdóttir